Cristina Muccioli, “Un uomo è un uomo, è un uomo, è un uomo”

(Dal Catalogo della mostra –  Galleria d’Arte contemporanea Statuto 13, Milano, aprile 2013 )

Uomini, nuvole, cagnetti, cavalli, bambini, case, donne, frammenti di paesaggio: tutti oggetti semplicissimi, i soggetti di Eugenio Moi, sospesi, immersi nel vuoto più silenzioso, eppure così insidiosamente interessanti nella loro affascinante chiarezza.

Nella nitidezza più franca delle sue immagini, progredisce per rarefazione il vero e persistente tema che sta nel cuore della figurazione: la natura dell’essere umano. Pragmatico e utopico, compassionevole e introverso, ragionevole e illogico, socievole e solitario, attivo e passivo, donna e bambino, l’uomo è rappresentato nelle sue tante manifestazioni dotate di senso, quello che produciamo e cerchiamo incessantemente perché ci è necessario per vivere. Proprio quel modo di stare al mondo dell’uomo, per cui il mondo stesso gli si rivela sempre diverso, quel modo di inventarlo e patirlo, di guardarlo, di rammentarlo e riviverlo, è rilevante per Moi e per la sua intuizione fondamentale: se di modo si tratta, è infinito, cangiante, instabile perché capace di divenire, di evolvere.

Leggere un’opera d’arte figurativa contemporanea, interpretarla senza negarla nel suo nucleo espressivo, richiede sicuramente che non la si impoverisca nei suoi significati metaforici e simbolici, ma paradossalmente e ancor più che non la si sovraccarichi.

Se l’Informale prende forma attraverso quella delle sensazioni dello spettatore, delle sue associazioni di pensieri, emozioni e ricordi, il figurativo ne ha già una sua di cui non si può non tener conto. Per questo la figura chiede un incontro e un incastro ‘su misura’ tra la sensibilità di chi realizza l’opera e quella di chi guarda.

Un mondo nuovo viene al mondo attraverso questa silenziosa collaborazione fatta di stupore, certo, di piacevolezza e di immedesimazione, ma insieme anche di un’attenzione all’erta per un’integrità affidata alla percezione, per una solidità di contenuti e di ricerca, che tanto più permangono nella produzione artistica di Eugenio Moi quanto più l’artista esplora tecniche e supporti diversissimi.

Non disorientino quindi le convivenze più eterogenee, come quella della juta di antica tradizione avida di colori a olio, con il cartoncino appena sfiorato dall’iridescenza grigia della matita; oppure dell’acciaio riflettente che accusa colpi e ferite senza flettere in luminosità e compostezza, con i sassi lavorati senza fretta da ere artigiane; o  -ancora- da algidi schermi elettronici su cui l’artista disegna con le dita, come su un vetro annebbiato, approfittando della magia tutta contemporanea che sa trattenere su di sé la carezza furtiva di un polpastrello, con la ruvidezza scura e opaca dell’ardesia: per Moi, il supporto varia come il transitare dei tempi, delle sollecitazioni e delle disponibilità, estranee ma concomitanti, dei mezzi espressivi. Quel che permane sempre è la domanda tematica radicale del che cos’è un uomo, del che cosa fa di un uomo, un uomo, a partire dalla sua naturalità, da quella natalità che lo accomuna agli animali.

C’è un bimbetto, a proposito, iscritto in un cerchio (Fantolino in cuor suo, 2103, olio su juta). In quel tondo tutta la sua figura pare essere equamente centro, dalla testa all’addome, dalle mani ai piedi. Lo vediamo ‘centrale’, protagonista assoluto, individuato e quasi additato dall’artista. Facciamo riferimento certo a parti anatomiche del bambino benché siano appena accennate dalla linea di contorno nera, sicura e spessa, tipica del tratto di Moi. È un bimbo alluso, sbozzato, schematizzato, ma non c’è alcuna incompletezza: quella figura è fatta, finita e definita. Né si cada nella trappola di pensare che il segno sia infantile, come disegnato da un coetaneo del protagonista. Un bambino non semplifica, imita il più possibile, imita come può, magari benissimo, conta i rametti da attaccare al fusticello del braccio perché alla sua creaturina sul foglio non manchi nemmeno un dito.

Moi va a caccia di verità primarie, di essenza, finché la scova e la rappresenta. Questo ‘fantolino’, come lui titola echeggiando lessici famigliari (Fantolino spellato, 2013, tecnica digitale) è sorprendentemente dinamico: alza la spalla sinistra che si incolla a una guancia, abbassa la destra come volesse ritrarsi da qualche cosa, e lo fa, nessun mistero: si stacca da un secondo contorno rosa confetto, più minuto e molto più semplificato, più uniforme. Il fantolino cambia pelle, con la fatica del caso. Rinasce, e rimane se stesso, come ci accade tutta la vita, in due modi differenti: possiamo accorgercene, oppure no. Essere complici del cambiamento o esserne meramente parte, oggetto. Il soggetto, invece, che si districa dal -già- vecchio sé, è infittito di colori non amalgamati, di un mosaico di frammenti che attendono di essere composti in una tinta identitaria, oppure di essere riscoperti come desideri e passioni, come piccole e concrete ‘potenze’ nel senso letterale del poter fare, che non ricordavamo più di avere. Si nasce uguali, indistinti, si nasce alla nuda vita diceva Hannah Arendt ne Vita activa. La condizione umana.

Nell’agire, per la filosofa, risiede la capacità di rinascere, di essere continuamente inizio e iniziatori di se stessi, di garantire il rinnovamento del mondo. Poter iniziare qualche cosa di nuovo – come questa opera di Eugenio Moi sembra raccontarci – coincide sempre, ineluttabilmente, con la fine di qualcos’altro, che sia un’epoca, una stagione, una fase. Da essa occorre, per rinascere, saper uscire, saper trarsi fuori quando diventa angusta e inadeguata, per quanto bellissima, corallina e brillante.

Se si potesse tradurre in un augurio un quadro come questo, senza stravolgerlo né forzarlo in un’unica linea interpretativa, l’auspicio in immagine sarebbe forse questo: non smettiamo mai di nascere.

Se tutti i saperi scientifici sono congegnati e incrementati per dare risposte, risolvere problemi e oggettivare, quello artistico soggettivizza e continua coerentemente nella sua singolare pratica di sollecitare interrogativi. Per la biologia, un essere umano è materia, energia e informazione; per l’arte, dà adito a domande come questa: come si rinasce, quando è possibile accedere a nuove possibilità di esistenza, a prefigurare orizzonti che danno significato e speranza, parola così preziosa e sciupata dall’abuso di massime elusive, dentro un presente talvolta confinato, appiattito, monocromatico?

Con Fantolino utopico (2013, olio su juta) Moi si affida alla contratta, aforismatica quasi, immagine del movimento in avanti, del pro-gredire da una situazione di stallo accentuata evocativamente da uno sfondo grigio compatto, cementizio, senza profondità né respiro di germinazione alcuna, verso un altrove che non ci è dato di vedere, ma da sperare. Un bimbetto trova una pozza d’acqua, che è già oceano mare, e gli basta lo spazio minimo, angusto di una barchetta verde vivo per pensare a salpare, con una gambetta sola che si flette appena per assecondare l’impulso al movimento, il trarsi fuori dall’immobilità del presente desertificato che non governiamo ma che ci governa totalmente. Adesso quel bimbo ha uno scopo, è utopico.

Rosso incandescente il bimbo senza età si accende, stregato non dal capriccio ma dal desiderio, dal sogno -magari dalla volontà- di partire, di sentirsi punto zero di una nuova esistenza, capo-progetto, pioniere, capitano di ventura, di cose a venire appunto, con le idee ben chiare e la prua appuntita orientata con precisione a oriente. Sono utopie, rammenta il titolo, piccole utopie, teneramente infantili, eppure così potenti, capaci di riscattare in ogni epoca della vita dall’immobilità, dal sentirsi in trappola, appiattiti in uno scenario desolante. La piccola utopia è l’impulso al movimento dentro l’infermità, è concreta possibilità di darsi un nuovo orientamento. E è plurale, anche declinata al singolare, perché non basta infilare un piede in una barchetta una volta per tutte: l’utopia è quel saper disporsi all’attesa che qualcosa arrivi, che qualcosa possa ancora accadere. Dalla continua tensione, dallo sporgersi anche lievemente in avanti, può cominciare e ricominciare ogni cosa.

La trazione sempre irrisolta tra utopia e realtà che necessariamente ci riacciuffa, ci riporta al pondus e alla gravitas dell’esistere, è rappresentata da Moi anche nelle sculture su basamento di ardesia o di acciaio (Portatori di sassi) in cui omini piccolissimi, bianchi e indististinguibili -per fare del particolare una questione universale- trascinano massi legati a cordame ruvido. L’utopia qui è proprio la capacità di traino, la volontà ostinata di farsi carico di un carico anche quando sovrastante, peso morto imbrigliato di vita, di energia che forse si ignorava di avere. Il portatore si dirige verso un vertice dello spazio che lo sostiene. La sua faticosa camminata, quel procedere lento e affannoso, è anche vettore, ha un senso e dà senso, meta, a quel che fa.

Essere utopici, animati dal desiderio è, ancora una volta, tipicamente umano. Non si tratta infatti di alcun impulso biologico legato alla sopravvivenza corporea. Il desiderio non è un bisogno che si soddisfa con l’appropriazione o la consumazione di un oggetto, come la fame con un po’ di cibo.

Allo stesso modo non è semplice risposta a una necessità l’abitazione dell’uomo (Casine, 2013, olio su juta), nella sua accezione più ricca e sfumata di coagulo di affetti e privatezza, di rifugio, riparo, luogo cui tornare o da cui poter partire in forze. Le case di Moi sono sospese in uno strato d’aria edificabile, svagate e assorte nel grigio azzurrato o nel turchese, come in una sostanza di sogno. Eppure anche così accennate, così minime, essenziali, sono capaci di far pensare ‘casa’, vita all’interno di un’opacità salvifica in tutta la forsennata trasparenza vetrinistica attuale. Non hanno porte né finestre, sono scrigno di desiderio impossibile ma fermo nei suoi contorni di pece. Sono indelebili.

Moi rinuncia senza ripensamenti a esibire compiaciuto i muscoli del virtuosismo di resa. Concentra nelle dita solo quel tanto di abilità accumulata, rifinita negli anni, e di velocità calviniana, che gli sono necessarie per far emergere dai supporti più diversi i suoi autentici calembours giocati sulla tensione dialogante tra un’immagine semplicissima eppure enigmatica, e un titolo altrettanto chiaro, che finisce però per spiazzare, disorientare, impensierire, commuovere, o divertire sottilmente lo spettatore.

Biri for ever, per esempio, garantisce un quadro (digitale, detto giustappunto tra parentesi, perché la poetica non cambia) in cui da uno sfondo glamour grigio antracite si stacca, alonato di bianco splendente, un cagnoletto di nessuna razza e di tutte le razze riassuntivamente, gaio e multicolore, mantello a pois come raccomandano i Guru Yayoi Kusama e Damien Hirst, mentre lascia dietro di sé una breve e ineluttabile scia, rigorosamente coordinata, di escrementi. Un cane, puoi anche agghindarlo assumendo uno stylist, chiamarlo come un nobile educato a Cambridge o come il pater familias con il numero ordinale a differenziarlo, ma resta se stesso, un Biri, nomignolo breve, comunissimo, buono da urlare in fretta per i richiami più disparati: non dispone a suo piacimento del proprio corpo. Vi coincide esattamente, invece, quindi non prova imbarazzo alcuno a provvedere ovunque e comunque alla soddisfazione dei propri bisogni.  Resta ironico e acuto lo sguardo dell’artista sullo stravedere di noi contemporanei, per animaletti domestici che sostituiscono disinvoltamente i figli, protagonisti au pair, à la page, di esistenze palliative.

Un piedone per aria con le dita quasi sparpagliate, scontornato da un tratto nero, spesso e brutale, è infittito da una nevrosi di famiglia Pop, filamentosa coloratissima e ingarbugliata.  Ai tuoi piedi (2013, tecnica digitale) recita il titolo arguto come un motto di spirito. Un piede è un piede, è un piede è un piede, concorderebbe Gertude Stein. Non si esce dalla triade tautologica ortopedica, se si pensa alla propaggine dei nostri arti inferiori, che millenni di idolatria feticistica-estetizzante non potranno mai cambiare nella sua utile, ma anche buffissima essenza di zampa adattata alla locomozione eretta. Et voilà, ecco svelato l’idolo cui ci prostriamo, quando siamo in adorazione di qualcuno, o quando, come in questo caso, dichiariamo soltanto di esserlo. Frana l’eroismo romantico dell’adulante, e l’idealizzazione ben gestita dell’adulato.

Moi è pittore analitico, pensoso. Se il Concettuale non avesse già stabilito e storicizzato tra gli anni Sessanta e Settanta il suo valore semantico di autoriflessione dell’arte, rubricando con troppo rigore chi è dentro e chi è fuori, Moi (come il surrealista René Magritte) vi rientrerebbe, poiché rappresenta concetti in immagini titolate.

Le icone dipinte da Moi sono una narrazione intera, che parla a noi e parla di noi, delle sensazioni passeggere e capaci allo stesso tempo di lasciare traccia. Se abbiamo potuto dare un nome all’angoscia, all’istante della gioia, alla tristezza e allo spaesamento, all’inadeguatezza e all’onnipotenza superumana del fanciullino, è perché in situazioni, luoghi e tempi anche molto lontani, abbiamo vissuto sotto la nostra pelle le stesse emozioni intermittenti.

Negli Arretranti (2013, olio su juta), due soggetti indistinti, eppure così ineluttabilmente umani, retrocedono in uno scenario impossibile, allegorico, e quindi iperrealistico, per collocarvi uno stato d’animo, che Stato non ha, né potrà mai averne. Hanno paura, non sono terrorizzati, sono scoraggiati, agiscono e subiscono un allontanamento, un respingimento senza strattoni, ma inesorabile. Le braccia scivolano a sigillare anatomicamente il busto, hanno una spalla più sporgente dell’altra a segnalare sommessamente una spinta, una passività cui non riescono, non possono opporsi. Le teste voltate di lato -e come facciamo a dirlo? Qui sta la grandezza della mano che padroneggia la forma: nel nonnulla di un segno impresso nei visi che svelano una leggerissima protusione zigomatica e cranica da una parte superiore all’altra, come accade nei mezzi profili- le teste voltate, si diceva, sono vuote di uno sguardo che si imprime su quel che abbandonano, sulla perdita. Lo riconosciamo perché gli occhi non dipinti da Moi, sono stati anche nostri. Le nuvole giallo limone che attraversano corpi e aria densa da poterla toccare, sono allarme, macchie di uno stridìo squillante quanto afono, del dolore inferto dalla distanza, dall’indicibilità, dalla separazione.

Un uomo è un uomo, è un uomo, è un uomo. La ripetizione, il ribadire che non si cura affatto di esercitarsi nella palestra dei sinonimi, può essere letto in due modi. Uno è quello che echeggia diligentemente il principio di non contraddizione, riconduce alla limitatezza umana, come a dire che in fondo un uomo non è altro che se stesso, finito, fragile, mortale come lo definivano i Greci prima di ogni altra aggettivazione. Un altro dilata, moltiplica la sua identità, sottolinea come un ritornello la non dicibilità ultima della sua essenza che non è data a priori, ma si inscrive nella sua storia, esalta la ragione e l’uso logico dei paradigmi linguistici per farli collassare in un attimo, molte volte. Basta un sogno per saggiare l’irrazionalità che ci abita feconda, oppure essere stati innamorati.

Tenere l’amato sulla mano, portarlo alla bocca per baciarlo, non è cosa ragionevole, ma noi -usiamo dire- portiamo in palmo di mano chi amiamo. Moi accondiscende a questa dolcissima follia, a questo piccolo scandalo della ratio, e fa di un modo di dire un’immagine pura, a tinte piatte, ben scontornata (Il grande bacio, 2013, tecnica digitale). L’amato è piccolissimo perché possa stare tutto, proprio tutto nella mano dell’amante, amata a sua volta. Attivo e passivo si mescolano, svellono paletti di qualsiasi ordine sintattico, così come succede fra le partizioni cromatiche: la linea che separa il bianco dall’azzurro cielo nel volto che sta per baciare, che forse ha appena baciato, di che colore è? Ecco è lì che sta l’uomo.

 

 

Massimiliano Bisazza: “The sign and the image in the art works of Eugenio Moi investigate about several aspects of the human universe.

Various characters inhabit his works which are contextualized in parallel worlds: animals, men, women, houses and landscapes; they all are suspended in the emptiness …that unfillable emptiness which is typical of the human being.

Moi is meditative and conceptual but goes straight to the point in his communication and when representing his primeval subjects, ancestral, swinging between reality and utopia. He uses several different supports : oil on canvas, digital prints, steel, drawings and all the silhouettes he represents are perfectly fitting the contents and the much disparate locations.

Sometimes his surreal attitude (eg. Let’s think about René Magritte) let people glimpse clear and undeniable meanings; meanwhile we may feel bewildered and astonished by proposing subliminal messages spread by a very deep cryptic and laconic introspection.

Moi is never taken for granted. He is always going along with us on unknown paths which clumber up in the shadows of the human nature and contradictions, touched by a simple image but always efficient. Sometimes those paths are fulfilled of brutal allusions but it is the state of being contemporary. Outlined shapes remind us the intimacy of the human being and our life essence: flash, blood and feeling. This trilogy is inside of us and it is “declined” as “The word of God”: this applies in many cases, many characters, personality which are surrounding us day by day”.

 

 


Xante Battaglia: 
 “La simbologia di sintesi di Moi è penetrante, emozionante (la funzione dell’arte). Mette oggi in crisi la sedicente Avanguardia -Trans. Ci sono artisti autentici in questa direzione che reggeranno nel tempo (la vera arte). Moi, artista “plasticien” si muove in diverse direzioni (anche scultore) usando diversi materiali con concettualità e maestria. A mio vedere, il suo segno, i suoi segni psico-semantici, sono altamente pittorici e ci trasmettono un mondo, al di là delle mode, anti-moderno e di nuova metafisica” (Presentazione della Collettiva del 29 Settembre 2012,  Fondazione Xante Battaglia, Venezia, Calle dei Forni)

 

Cristina Muccioli, “Le emozioni ferite”

(Presentazione della Personale  presso Le Segrete di Bocca – Milano – 8 novembre 2010)

Fuori dalla consueta alternanza dei “pre” e dei “post”, le opere di Eugenio Moi sono nuove. È una pittura ossimorica la sua, cui non basterebbe la nozione unitaria di una definizione stilistica estratta dalla grammatica dell’arte.

A vere e proprie pulsioni materico-cromatiche, si contrappone la sospensione, la leggerezza, il silenzio di soggetti i quali, a loro volta, sembrano regredire espressivamente fino ai primordi figurativi – quelli così cari all’Informale – per farsi mediatori acutissimi tra l’astratto della forma e il concreto di quello che rappresentano.

La loro evidenza quasi tattile è così lontana da ogni immediato riferimento con la realtà, che si può parlare di Metafisica nel senso originario del termine: qualcosa che non elude la fisicità, tutt’altro. La supera con i suoi stessi mezzi, la decontestualizza.

Moi dà un luogo ben definito e compatto a ciò che spaziale non è: le inquietudini, i silenzi sigillati in corpi senza bocche, la solitudine e la malinconia, lo struggimento e contemporaneamente quell’accettazione lucida dell’esser soli o del sentirsi tali, da cui sgorga la forza ostinata di attendere senza uno spiraglio di speranza: cieli e mari vuoti, distese in cui si coagula, al più, una nuvola. Sentire la mancanza, si dice quando la solitudine è arginata solo da una presenza interna, dall’immaginazione assorta che figura il ricordo di chi non c’è.

Mancante è Uomo incompiuto (2010), un volto di cui una metà è dissolta nel suo colore diafano, in transito come una nuvola verso un compimento che l’età adulta non assicura affatto. Compaiono lineamenti somatici sul tratto di viso sorto da occidente, enigmatico come un discorso interrotto e più evocativo di mille discorsi iniziati e finiti. L’incompiutezza coinvolge empaticamente lo spettatore nel processo di creazione dell’opera. Le fragilità che convivono con le nostre risorse psicologiche ci fanno sopravvivere a un dissolvimento liquido e incalzante, e ci rendono consapevoli di quanto siamo tutti un po’ incompiuti: un ramoscello esile di una pianta che sembra nata già longeva, come l’ulivo, è misurazione mentale affiorata alla superficie della nostra natura dinamica, in divenire, mancante.

Tratti a volte severamente arcaici, altre giocosamente arrotondati, ritagliano con nettezza figure ibridate di angeli terreni o di creature che si esita a definire zoomorfe piuttosto che antropomorfe, di giganti, arlecchini, uomini, bambini e donne ardenti di fiamme che li incendiano senza ferirli; oppure feriti (e apparentemente noncuranti) da un taglio senza indugi praticato da un bisturi esistenziale, alla ricerca del famoso cuore, quello talmente abusato e sovraccaricato simbolicamente da essere sparito, da rendersi irrintracciabile e preda rivitalizzata.

Teste come uova perfette – poggiate in bilico sul collo o in equilibrio delicato – sono senza lineamenti somatici, talvolta rannuvolate, letteralmente. Come una maschera, una striscia di nuvola copre lo sguardo di una donna (Donna con nuvola passeggera, 2009), o di una coppia protetta dalla luce ciarliera del plein air (Amanti rannuvolati, 2009): qualcosa rimane custodito e segreto, la fisiognomica cambia tattica espressiva, si manifesta per simboli più che per dettagli e giochi di lumeggiature o chiaroscuri.

I protagonisti della scena pittorica di Moi sono innestati, si fanno largo e spazio in un tema paesaggistico talmente definito da farsi architettonico: di lì la consistenza murale di distese di acqua o di cielo opachi e pregni di colore, pavimentazioni e soffitti di varchi e archi a tutto sesto, aperti su un mondo capace di accogliere il vuoto, di permettere a chi vi si affaccia o ne è immerso, di sentire la propria solitudine senza possibilità di aggiramenti, senza orpelli decorativi di albe e tramonti.

Questa natura è estranea quanto inesorabilmente presente, sgorga da una frazione chiara e distinta di campiture in cui va a confondersi il ruolo della linea di demarcazione tra regioni cromatiche: non si sa dove sia l’orizzonte in Moi, è tutto sullo stesso piano, come accade nei sogni, dove le regole funzionali della prospettiva non aiutano, non servono, sono scartate. L’alto e il basso, il vicino e il lontano, il primo piano e lo sfondo in Moi sono interscambiabili, lottano alla pari e scelgono lo spettatore come arbitro della sua percezione.

Eppure, in tutta l’estraneità di una composta scansione plastica di oggetti e soggetti, i temi cari a Moi ci sono intimi e familiari: l’inadeguatezza del gigante verde che stringe nella mano una seggiola troppo piccola per lui, quel non riuscire a trovare un posto proprio e il sentirsi ingombranti, esclusi dall’unità di misura corrente (Vita del gigante, 2008). Quella degli Arlecchini che sperimentano la miniaturizzazione del vinto, di chi è sopraffatto da una quotidianità fatta di problemi che paiono insormontabili, eppure risibili per la sembianza di innocuità e familiarità.

La maturità di un Arlecchino canuto che è cresciuto abbastanza per saper sperare anche di fronte all’impresa più disperante, come la traversata a cavallo di un mare, perché quando si è appreso ad amare e ad essere amati, si può tentare l’impossibile (Arlecchino attraversa il mare, 2008).

La caduta fatale e il ruzzolamento giù per scale brevi ma spigolose di un bambinello universale, a evocare tutte le parti bambine che ci inducono a farci del male (Putti rotolanti, 2009).

Il cambiamento che sopraggiunge nelle nostre vite senza strepiti, ma con definitività tale da mutare morfologicamente noi stessi, ibridi fra e con più nature (Uomo e bambino scoiattolo, 2009).

La resa ironica alla stanchezza dell’angelo ora custode, ora annunciatore in sogno e durante la veglia, che illumina custodisce regge e protegge noi fino a non reggersi più, in balia delle sue stesse smisurate ali, incapace di governarle (Stanchezza dell’angelo, 2010).

La memoria di un anziano pescatore che tutta la vita ha svolto il suo lavoro fino a incarnarvisi, a coincidervi, ma non più in grado di svolgerlo e quindi di essere se stesso, quella memoria dicevamo, guarda al posto dei suoi occhi debolissimi, guida le sue mani che ne sono depositarie, che hanno accumulato saperi e sapienza, a lasciare segni che gli sopravvivranno, ricamati sulle pietre, le più antiche lastre di impressione (Ricamatore di pietre, 2008).

Questi aspetti minuti quanto autentici della nostra vita invisibile, dissimulata, così difficili da condividere a parole, sono rappresentati dall’attenzione introspettiva di Moi senza mai scivolare nel didascalismo, senza toni trionfalistici di chi si compiace e mira a rappresentare la bellezza in sé e per sé. A conferma della possibilità unica e insuperabile dell’arte: la sua capacità non tanto di farci capire, né di chiarire o spiegare, ma di farci “sentire”.

Moi procede per accumulo e dosaggio di materia pura per arrivare a quella sostanza immateriale che è la nostra vita emotiva.

Stupisce -in questi tempi di misture, tecniche e materiali inverosimili- il ridottissimo impiego di mezzi espressivi scelto da Moi. La semplicità austera e sincera dei suoi pastelli e dei suoi olii è sapiente e consapevole nel sottrarsi al giogo virtuosistico delle leggi tonali e delle intonazioni luministiche.

Ciò a cui Moi dà vita – quelle che Eugenio Borgna ha chiamato le nostre emozioni ferite – è reso per sincope in una bidimensionalità ordinatamente gremita, in cui realtà e natura sono ristrutturate, ripensate per dare corpo e spazio, pelle e colore a quanto è passeggero, precario, silenziosamente palpitante.

Le emozioni ferite – serata del 15 novembre 2010

Cristina Muccioli: Vorrei dare la parola al professor Porta, che mi sento di definire così: una di quelle persone che fanno mille cose e le fanno tutte bene. Una cosa che mi ha sempre stupito è che è neurologo, musicologo, è un grande esperto di arte e tutto ciò che è relazione, contatto, dialogo, umanità… Anche dentro la sua professione è coltivato e condiviso al massimo livello teorico -non teoricistico- e pratico. Il prof. Porta è stato definito da Vittorino Andreoli -in maniera commovente- come il nipote di Charcot. Io ho ritrovato in lui nella prassi di medico quello che Leopardi per la prima volta, con una crasi formidabile quanto semplice, ha definito comepensiero emozionale. Le due cose, la passionalità e l’emozionalità, non sono disgiunte, staccate.

Lascio onorata e ringraziando per la sua presenza la parola al prof. Porta, su questo tema delle emozioni ferite. Grazie.

Mauro Porta: Grazie Cristina, grazie a voi… Stasera si può senz’altro parlare a un certo livello, proprio per i personaggi che sono qui questa sera, c’è Arturo Schwarz, c’è Vittorio Sironi, ci sono altre persone delle quali mi interesserà molto conoscere il parere.

(…)

Il percorso della mia vita è stato guidato da una sola parola, che si chiama curiosità. Curiosità appagata dal fatto che ho avuto l’occasione di vivere, lavorare con e per personaggi eccezionali, di vivere tantissimi anni in un posto come la Salpêtrière, dove ho avuto modo di conoscere  -per pochi anni, però in numero sufficiente per approfondire certe cose- ciò di cui si era occupato Charcot, e lo stesso Freud.

Io sono nato, come Vittorio Sironi, nell’ambiente neurochirurgico- funzionale- siamo una specie di dottor Frankestein, che hanno l’illusione, inducendo degli elettrodi nel cervello, di modificare la personalità, il comportamento.

Quando ho cominciato a fare ciò, i limiti dettati da questa psicochirurgia erano estremamente evidenti, e devo dire che aver vissuto per tanti anni a Parigi ha posto immediatamente dei paletti culturali, filosofici – intendo ad esempio parlare di Lacan, psicoanalista-  tant’è che tutto questo contesto di eruzione, di passioni,  emozioni, se lo collochiamo in quel contesto parigino, riveste ancora degli aspetti dubbi: ci sono molti punti di domanda.

Adesso io sono arrivato su posizioni di compromesso, ero nato fanatico organicista, convinto che ci fosse un cervello con tante aree, che potevano essere interessate da questo o quell’ aspetto, da questo comportamento, da questa funzione, e null’altro. Venivano dalla scuola pavloviana,

(…)

Che cosa sono le emozioni oggi in ambiente neurologico, psicologico, neuropsichiatrico? Le emozioni sono dei marcatori biologici, ossia dei marcatori somatici, distinti dalle passioni.

(…)

Ogni uomo è capace, trovandosi in certe situazioni, ad esempio guardando i quadri di Moi, di provare un certo tipo di sensazioni corporee, che si rifanno proprio al corpo. Leggete l’Iliade, l’Odissea, i grandi narratori epici: voi vedrete per esempio che quando Idomeneo nell’Iliade ha delle crisi di paura, l’emozione è benissimo descritta da Omero, e nulla è cambiato. Omero dice che a Idomeneo tremano le gambe, si dilatano gli occhi, suda, trema…

C’è un libro bellissimo di Sherlock Holmes, che si intitola “L’altra macchia”, dove la donna protagonista  è ritenuta colpevole da Holmes,  e il detective dice a Watson: “Sai perché è colpevole? Perché lei non mi vuole mai vedere alla luce, col volto rivolto verso di me, perché quando l’interrogo, dilaterebbe le sue pupille…”

(…)

Perché dico questo? Perché le emozioni nel contesto scientifico ancora oggi sono collocate come dei marcatori biologici. E qui ci sono tutti i lavori che arrivano fino a Darwin. Il quale ha detto: non solo le emozioni sono marcatori biologici somatici straordinari. Ma addirittura hanno seguito l’evoluzione della specie affinché ogni specie possa sfuggire in situazioni di emergenza.

(…)

Fin qui Darwin. Ma arrivano altre persone, a dire: ma siamo proprio sicuri che le emozioni sono dei marcatori biologici -messi in opera tra l’altro utilizzando un mediatore cerebrale del tutto particolare che è la noradrenalina, un mediatore che viene secreto del nostro corpo, in particolare dal nostro cervello in situazioni di emergenza- ma siamo sicuri che è proprio così? Costoro hanno cominciato a dire: siamo mica convinti… L’uomo fugge perché ha paura, o ha paura perché fugge? L’emozione è un discorso centrale o periferico? Forse ha anche un grosso ruolo il discorso periferico. L’uomo non solo fugge perché ha paura, ma il suo cervello si rende conto che il suo corpo sta fuggendo e pertanto ha paura. E allora, per farla breve, oggi si sono recuperate ancora una volta la Res extensa e la Res cogitans.

(…)

Chi s’avvicina all’opera d’arte, all’ascolto della musica, in qualsiasi attività che comporta il gioire, il fruire dell’arte, ha un approccio gestaltico: più io ho un approccio gestaltico, d’insieme, immediato magari senza un background culturale che mi faccia capire come collocare l’artista: chi è Moi, perché Moi dipinge così, piuttosto che qualsiasi altra manifestazione artistica, prevale in me l’approccio gestaltico, l’approccio immediato che produce delle emozioni. Le e-mozioni, come Cristina Muccioli recentemente diceva: possiamo ricostruire dal latino ex motione, è qualcosa che connota il nostro muoversi, il nostro comportamento.

E’ straordinario. Quando si parla di emozioni ferite -che è il titolo della mostra- io lo leggerei come opere d’arte capaci di evocare immediatamente, tout court delle sensazioni che evocano nel nostro corpo delle reazioni che poi posso elaborare, facendo intervenire il mio cervello cognitivo, il mio cervello colto, il mio background artistico, l’aver ad esempio studiato e collocato Moi in un certo tipo di corrente…

(…)

Cristina Muccioli: Il professore Arturo Schwarz, che ci ha onorati della sua presenza a questa mostra di Eugenio Moi, ha qualcosa da dirci, di sicuramente  imperdibile…

Arturo Schwarz: Dunque, tutto quello che tu hai detto si può ritrovare in nuce in Friedrich Engels. Nella Dialettica della natura lui dice giustamente che lo spirito è lo stato più evoluto della materia, quindi non c’è dicotomia tra spirito e materia, ma c’è una sola cosa in grado di evoluzione diverso. Questo ci riporta al tuo esser stato all’inizio organicista… Ho letto ultimamente su Scientific American un articolo estremamente interessante, che ripropone questo sentimento organicistico e poi olistico: cioè non c’è differenza tra lo spirito e la materia. In ultima analisi è dalla materia che nasce lo spirito, da qualche parte del nostro cervello, come tu pensavi e forse ancora pensi, quindi questa visione organicistica delle emozione a mio parere non è sbagliato…

Anche Spinoza, quando parla di natura naturans, di carattere fondamentale: non pensava tanto alle emozioni quanto a questa visione olistica grandiosa, per cui non esiste un creatore e una creatura ma uno è l’evoluzione dell’atro. Esattamente come Friedrich Engels quando dice che lo spirito è la forma più evoluta della materia, e si ritorna in questo modo al concetto di organicismo.

Mauro Porta: A livello artistico è molto importante la memoria, io ho avuto la chanche di frequentare abbastanza Arturo Schwarz, due cose mi hanno sorpreso di lui. Arturo, come si fa a valutare una bella opera d’arte? E’ chiaro che lui avendo intuito chi fosse Duchamp in un momento tutto sommato sospetto, lui mi ha risposto sempre: bisogna che l’opera d’arte ti piaccia.

Arturo Schwarz: Che dia un’emozione…

Mauro Porta: Ecco, che ti piaccia e che ti dia un’emozione… C’è anche un discorso di forma e contenuto nell’opera d’arte, si parlava prima con Bolzani dell’importanza del quadro e dell’opera d’arte contenuta, di un teatro e della musica in essa contenuta, di un pianista che diventa esecutore, interprete, cosa può dare lui per darci emozioni …

E questo tra l’altro secondo me accomuna tutte le arti. Io ho sempre sofferto del fatto che le scuole d’arte misteriosamente non contemplassero le musiche, la musica, e che ci fosse solo la visione. E’ vero anche che Freud -in ciò secondo me commettendo gravissimo errore- divideva le arti in dionisiache e apollinee, diceva che non si potessero mischiare le arti..Freud era scioccato dalla musica, meno scioccato dal Michelangelo piuttosto che da un’opera architettonica, questo è interessante.. Kris, per dire uno psicoanalista critico d’arte, era molto perplesso davanti alla musica, proprio perché Freud diceva “non riesco a controllare le mie emozioni quando sento un pezzo di musica”…

Arturo Schwarz: Peggio ancora, sia Freud che Jung non capivano un’acca dell’arte moderna, a loro contemporanea. Io ho scritto un saggio, 40 anni fa circa, in cui esaminavo le reazioni e gli scritti di Freud e di Jung, che sono agli antipodi a un certo punto, il concetto base dell’inconscio collettivo è totalmente ignorato da Freud, però su questa linea precisa dell’arte a loro contemporanea, erano ciechi. Come Freud era cieco per la musica, c’è un esempio per me doloroso, è quello di André Breton, sordo alla musica, per lui era una cacofonia, io mi arrabbiavo totalmente, sono stato molto intimo di Breton, ma scusami, ma Mozart, Chopin, Brahms, Bach, non ti danno nessuna emozione? “Que bruit effrayant” “Che rumore spaventoso..” io non riuscivo a capire, con la sensibilità esacerbata di André Breton, per me era una quasi divinità, come potesse essere sordo alla musica…

 

Cristina Muccioli: E’ stato toccato un tema che mi è tanto caro, da cui non son mai guarita: quello della classicità dell’Iliade e dell’odissea.  Il professor Porta diceva prima che si è arrivati -con grande fatica dopo Cartesio- a capire che non esiste mente senza cervello, ma che le due cose dialogano e sono un tutt’uno.

Ai tempi dell’Iliade e dell’Odissea il termine corpo non esisteva, il lemma ‘corpo’ non esisteva. La parola ‘soma’ da cui deriva somatico, voleva dire ‘cadavere’, nel senso che uno veniva considerato corpo una volta che era morto, altrimenti lo si chiamava per nome.

Il “corpo di Ettore”  significava la salma di Ettore. Tra i Greci non esisteva questa parola, loro che avevano un’estensione lessicale infinita, loro che oltre ad avere le persone singolari e plurali nella coniugazione dei verbi avevano una voce per il duale, l’unica lingua al mondo che dedica una voce per due che parlano, i Greci danno un’importanza talmente grande al confronto che hanno inserito il duale… C’erano i nomi per le parti anatomiche, Ettore ad esempio viene trafitto al collo, ma non si dice del corpo di Ettore, finché Ettore non muore.

A un certo punto, con il giusto, benvenuto ingresso della scienza, ippocratica e post ippocratica, perché ha dovuto essere Ippocrate, lui etico, lui su cui ancora adesso i medici fanno il giuramento, Ippocrate ha dovuto essere organicista, perché la confusione e la divinizzazione del tutto era tale per cui non era possibile curare una persona, la si considerava indemoniata, perseguitata, cattiva, quindi punita dal demone, invece quella era malata, per cui aveva diritto allo stare nel dolore, e Ippocrate nei suoi scritti parla anche del suo sentirsi impotente… Questa inadeguatezza porta a volerne sapere di più a livello di tecnhe e diventare organicista per poter essere d’aiuto, per portare conforto.

Il giuramento di Ippocrate rimane di grandissimo valore. Lui ad esempio dice: non alzerai mai il ferro -il bisturi- sul paziente, escludendo l’intervento chirurgico… La chirurgia non c’era, c’era la vivisezione, e per mettere al riparo il paziente da certe pratiche ignobili, e non autorizzare queste cose, ha fatto inserire questa voce, e si è preoccupato dell’etica del medico.

Un’altra cosa che mi ha colpito del discordo di Mauro Porta è stato questo suo ricordare la paura tra le varie emozioni. Ha fatto molti esempi sulla paura, e anche sulla memoria. Ricordo di aver letto in Paying and Reality di Winnicott, quella sua confessione: lui aveva paura di qualcosa che era già accaduto.

Eugenio Moi dedica a questo un’opera: “Il ricamatore di pietre”.

Una cosa è già avvenuta, uno dovrebbe stare tranquillo, allora il fatto di avere coscienza e memoria, il fatto di aver subito dei traumi che hanno inciso grandemente sul piano emotivo porta in maniera irrazionale ma persistente -Freud diceva: i traumi tornano intatti- ad avere paura non di quello che sta accadendo ora e ci può mettere in pericolo, ma di ciò che è già avvenuto. Lui era stato perseguitato dai nazisti, era fuggito era riuscito a mettersi in salvo, prima a Londra poi in America, poi ha finito col suicidarsi…

Perché aveva paura di ciò che lo perseguitava, come un fantasma… E sono cose cui i neurologi pongono ascolto, gli psichiatri che percorrono questo sentiero carsico, sempre messi ai margini, esclusi da un discorso di humanitas, come se la scienza non avesse nulla a che fare… l’angoscia e la melaina konè, cioè la malinconia, questo umor nero, sono le due possibilità umane, le due esperienze umane che tutti noi viviamo nella nostra vita e che diventano psicopatologiche in alcuni casi, per cui c’è bisogno di cura, ma tutti noi le proviamo…

 

Mauro Porta: Il vero dramma che stiamo vivendo, è che c’è stata la sostituzione dei contenuti, delle cose, da parte della tecnologia.

La tecnologia ci ha fregato. Sentiamo un pezzo musicale… Celibidache, l’ha registrato a Monaco nel 1963-64, una registrazione dal vivo, poi sento lo stesso pezzo registrato da Mella con un impianto in quadrifonia eccetera… Voi sentite più emozione con Mella  o sentendo Celibidache in una vecchia registrazione gracchiante?

 

Arturo Schwarz: Due cose se permetti, una che riguarda te, una riguarda Cristina Muccioli. Tu hai appena parlato del pericolo della tecnologia. Mi ricordo quella frase di Adorno, nella Minima Moralia, dove dice che noi possediamo un cumulo di macerie davanti a noi e il nome di queste macerie è: progresso. Cioè tecnologia.

Ma per tornare a quanto Cristina Muccioli ha detto, c’è un parallelismo straordinario non tanto perché le lingue latine sono di origine indoeuropee, ma in sanscrito, quello che è soma in latino, diventa in sanscrito: shava. E ancora più sorprendente è che in sanscrito la i denota il femminile e qui se nella parola shava si sostituisce la a e la si fa diventare i, diventa shiva, quindi vita, amore. La cosa più importante è questa: quanto denota il femminile denota anche l’emozione più profonda: l’amore per una donna, shava diventa shiva.

 

Vittorio Sironi: proprio di fronte a un’opera d’arte che evoca emozioni, noi ci rendiamo conto che l’artista riesce a raffigurare qualche cosa che è già insito nel nostro cervello, tant’è che questi studi nuovissimi molto affascinanti ci consentono addirittura di vedere cosa succede quando uno guarda un’opera d’arte, ma di vedere anche quando uno fa un’opera che è considerata opera d’arte.

Per cui si è arrivati a questo lavoro comune tra l’artista che non sa niente di com’è fatto il cervello e il neuroscienziato per cui si riesce a capire che spesso alcune forme artistiche tra cui quelle apparentemente più strane –  Mondrian, Kandisnsky- semplicemente trasformano, mettono sulla tela dei circuiti neuronali che noi abbiamo nel nostro cervello. Paradossalmente l’artista riesce attraverso un evento emozionale mediato poi attraverso un evento anche culturale a mettere sulla tela ciò che noi abbiamo probabilmente dentro il nostro inconscio, e questo è veramente affascinante, apre prospettive di conoscenza e comprensione del perché noi ci emozioniamo di fronte a un’opera che definiamo d’arte e un’altra invece ci lascia più indifferenti.

 

Arturo Schwarz: Io ho scritto un saggio, anche quello 40 anni fa, in cui avevo la presunzione di stabilire quando si può dare una definizione di arte, e dicevo che ci sono tre condizioni per cui l’arte si possa definire tale. La prima è quella di allargare il nostro orizzonte visivo e concettuale. La seconda di fare qualcosa – e qui torniamo al concetto medioevale del dottore, il dottore era una persona che portava nel proprio campo un contributo nuovo- allora l’artista diventa un dottore in un certo modo, quando ci propone una cosa che non è mai stata fatta prima. Mentre per esempio un Cattelan si limita a ripetere delle cose vecchie e stravecchie…

La terza caratteristica di un’opera d’arte è che ci dia un’emozione perché è evidente che anche un non artista può creare una cosa mai fatta prima. Ma: allarga il nostro orizzonte visivo e concettuale? No. Ci dà un’emozione? No. Quindi queste tre condizioni sono assolutamente necessarie perché si possa dire di un’opera d’arte che è un’opera d’arte.

 

Cristina Muccioli: Nietzsche, un filosofo che ho amato moltissimo, diceva che noi abbiamo bisogno  -e non solo abbiamo bisogno  ma siamo capaci – di esprimere ammirazioni impetuose. Lui parlava di impetuosità: noi abbiamo una pre-comprensione e una comprensione successiva elaborata, ma sicuramente una pre-comprensione che ha molto a che fare col nostro stato emotivo e che deriva da quel che Gadamer chiamava i pre-giudizi, nel senso di giudizi che vengono prima.

Uno dei grandi fattori della pre-comprensione è il linguaggio. La lingua madre è la lingua della mamma, sono i suoni che noi sentiamo ancora prima di nascere, questo in qualche modo ci conforma, ci denota direbbe Dino Formaggio, noi nasciamo con una possibilità di comprensione che però è pre-comprensione perché ci limita anche. Il fatto che io parli la lingua italiana, che abbia sempre sentito la lingua italiana e faccia fatica con il resto, la dice lunga sul fatto che non parli il giapponese… Mi ha colpito molto un libro di Dacia Maraini che è La nave per Kobe, in cui lei diceva: ritengo la mia lingua madre quasi più il giapponese che l’italiano, perché suo padre, Fosco Maraini, antropologo, e quindi perseguitato perché si occupava di stupidaggini, quali erano l’antropologia e lo studi dell’arte, fece un lungo viaggio, circumnavigando Ceylon… e raggiunse Kobe in Giappone, perché lì -pensava- siamo al sicuro. Avevano invece appena aperto un campo di concentramento (…) Li hanno messi in questo campo, non li hanno molto maltrattati, certo, il padre soffriva tantissimo perché era privato della libertà, dei suoi libri, dei suoi studi… La bambina, Dacia con sua sorella, viveva lì, aveva contatto con altri bambini attraverso la rete che circondava questo campo, e ha imparato il giapponese.

E lei se lo ricorda, e quando ha un’esclamazione, quando è in uno stato emotivo particolare, lei parla in giapponese, ma non lo dice in pubblico, parla la lingua dell’infanzia- tra l’altro un ossimoro perché infanzia: in-fans, vuol dire che ancora non può parlare, il bambino emette dei suoni- sono quelli dell’emotività.

Tra le varie emozioni che sono state citate, a me fa piacere questa sera -non per dovere di completezza ma perché la sento molto legata alla musica- parlare anche dell’emozione della gioia. C’è un inno bellissimo che è “An die freude”, che a me piace anche per il coraggio e la semplicità.. Si fa molto fatica ad essere gioiosi e a dimostrarlo, ci si sente un po’ banali.

Oltretutto la gioia come emozione, non come passione, è molto fuggevole, la si trova un attimo, la felicità, tempus fugit… Ma a maggior ragione l’arte è una di quelle manifestazioni dello spirito umano che la può fermare. La sofferenza ha quasi più diritto di abitate e di rimanere nella memoria, rispetto alla gioia…

La gioia merita un inno, ci hanno pensato i musicisti, ci ha pensato Beethoven con questo inno meraviglioso, ci pensa anche qualche artista che in qualche periodo di “poetica della merda” (lo diceva Lacan, lo condivido molto) in cui si insiste sul lato escrementizio, sanguinolento, scioccante, per cui uno si deve tagliare, si deve massacrare, versare sangue feci urine per convincere il pubblico, per indurre l’emozione.

Allora io credo che l’emozione, in quanto contingente, effimera, debba continuare ad esserlo, che uno debba continuare a provare un’emozione spontaneamente. Quando l’emozione vieneindotta dall’arte, prendo un po’ le distanze.

La compostezza che ha avuto Eugenio Moi, la pulizia, il nitore di queste tavole in cui non c’è facile ricorso al provocare emozioni… Mi ha colpito tanto, da subito.

Questo quadro che per esempio ha colpito moltissimo Alfredo Civita l’altra sera, in cui si parla di inadeguatezza, di paura, di smarrimento, si chiama “Smarrimento di Arlecchino”, in cui c’è questa figura gonfiata, boteriana, da cui fuoriescono come indici somatici, queste manine assolutamente sproporzionate,  e questo faccino senza maschera, perché tirata giù la maschera, allora si vede bene di che pasta è fatto questo Arlecchino. È fatto delle sue fragilità…

 

Ecco, l’arte è qualcosa che è estetica, perché è Aisthesis, è sensazione, è percezione, il contrario di estetica è anestesia, è quello che a me fa paura, è il non provare emozioni, il non provare sensazioni, e questo va secondo me al di là dell’elaborazione culturale che sicuramente aiuta, va di pari passo… Però il disfarci di mille sovrastrutture, di erudizione -come invitava a fare Edmund Husserl, matematico tra l’altro, fiolosofo- mettiamo tra parentesi la cultura, l’erudizione, cerchiamo di capire il lato vivo e palpitante, il lato vero e palpitante dell’esistenza.

 

Vorrei accostarmi a un’opera d’arte senza pretendere di capirla, di sapere, poi certo la curiosità -fondamentale- di cui parlava Mauro Porta, dopo che una cosa mi ha colpito, approfondisco, chiedo…  Ecco: interpretate un’opera, interpretare una volta si diceva interpetrazione, cioè si andava tra le pietre, non è così facile. Interpretare un’opera non è una scienza esatta, che arriva il critico e ci pensa lui, dice lui com’è.

Il critico più è bravo, più è capace, e più è umile, concreto, sta nella terra, sta fra le pietre e va con le mani nude tra le pietre a spostarle una a una e a cozzarci contro perché c’è qualcosa che non riuscirà mai a capire del tutto dell’artista, perché lo capirà l’altro, quello dopo di lui, perché l’arte ci sopravvive.

 

Arturo Schwarz: C’è una frase di Duchamp, a proposito di quello che hai detto ora, molto significativa, e dice non si potrà mai ‘parlare’ di un’opera d’arte, perché sono due mezzi di espressione diversi.

Giovanni Serafini: Innanzitutto grazie per questa dottissima serata, che ci ha allargato il cuore e sollevato lo spirito. Ha detto molto bene Schwarz che sono due linguaggi diversi la parola e l’opera d’arte e ha detto molto bene il prof Porta distinguendo tra emozione primaria, animale, istintiva e quella cognitiva tipica dell’essere pensante, dell’uomo colto. L’arte secondo me è un linguaggio universale: non c’è bisogno di conoscere il giapponese o il coreano, per apprezzare un’opera d’arte, una scultura, un quadro, una musica…

Mi è piaciuto moltissimo e ha dato molto scandalo Schwarz in una sua serata, nel riconoscere il valore della soggettività nell’apprezzamento dell’opera d’arte, cioè: l’emozione non può essere che soggettiva. Chi invece sostiene l’oggettività dell’arte. Quando comuncia a essere oggettivo un capolavoro?

 

Arturo Schwarz: Non si può, assolutamente, parlare di un’arte che può piacere a tutti quanti. Perché quello che può piacere a un occidentale può fare schifo a un aborigeno australiano. Il contesto culturale è di importanza fondamentale. Non si può mai parlare di un’opera universale. Forse noi occidentali abbiamo una visione della vite e dell’arte… di un aborigeno o un pigmeo dell’Africa centrale, possiamo apprezzare che vengono dal Giappone o dall’Australia perché abbiamo una visione più larga delle cose, ma se ci si restringe al punto di vista etnologico quello che può piacere  a noi o a loro, non piace viceversa.

 

 

Le emozioni ferite – serata del 22 novembre 2010 – ospite: Federico Leoni

Cristina Muccioli: Il tema di stasera, che mi piacerebbe affrontare con Federico Leoni, docente di filosofia teoretica, è il tema del nascondimento, e vorrei iniziare raccontandovi un aneddoto che ho tratto da uno dei libri che per me sono stati più formativi e che ho ricordato e reincontrato con l’opera di Eugenio Moi. Si tratta di un libro di Ernst Bloch, Spuren (Tracce), scritto nel 1930, in cui lui intitola una delle sue novelle ‘tema del nascondimento’ e inizia con queste parole -un esempio del rispetto per ciò che è nascosto, parla proprio di rispetto: Il rispetto è qualcosa di etico, che a sua volta è autentico se è interiore, se non è ostensivo e se è praticato, non semplicemente detto, manifestato con la parola, ma praticato con l’azione.

Un esempio di rispetto di ciò che è nascosto. Lui si riferisce con la tecnica del colportage, questa tecnica narrativa che mette insieme fatti, fatterelli, dicerie, fatti importanti, cronaca, su cui con molto acume e profondità trae conclusioni filosofiche sbalorditive, sfolgoranti, tratta molto delle novelle di tradizione chassidica, ebree, yddish, interessantissime, però vorrei raccontarvi questa che è di tradizione cinese, e che riguarda il contadino Lee.

Si narra che dei contadini (‘si narra’ non si sa quando, c’è già il ‘c’era una volta’ che è disperso nel tempo ma ogni volta che si dice ‘c’era una volta’ il passato torna presente, lo si presentifica, il passato torna adesso che io lo racconto) si narra che una volta dei contadini vennero sorpresi nei campi da un violentissimo temporale. Si ripararono nella capanna degli attrezzi, ma il fulmine pareva non solo non volersi allontanare, ma perseguitarli, accanirsi contro la capanna. I contadini pensarono che tra di loro ci fosse un peccatore, un malvagio e che per questo fosse necessario allontanarlo. Con quale criterio? Decisero di mettere fuori al vento i cappelli di tutti i tre. Il primo cappello che fosse volato via col vento sarebbe stato quello del colpevole e quello sarebbe stato cacciato, per il bene di tutti. Così fecero, il cappello che volò via immediatamente fu quello del contadino Lee, il quale venne buttato fuori dalla capanna, in mezzo alla tempesta, ai venti, ai fulmini ai tuoni., Immediatamente si abbattè un fulmine feroce sulla capanna, e morirono gli occupanti. Lee era l’unico giusto.

Questa piccola novella citata da Bloch -con il suo stile molto ironico, anche kafkiano, in cui tutto sembra apparire normale, invece accade lo scioccante, l’inverosimile, qualcosa che ci fa fermare, che ci sorprende- è usata forse per indurci a riflettere su una possibilità umana. Bloch non parla mai di verità con la ‘v’ maiuscola, lui non si pone per dire cosa è vero o sbagliato, o dare degli insegnamenti, ma parla piuttosto di possibilità umana, per cui può essere che quello che l’occhio comune -l’opinione comune consumata, la doxa per i filosofi, a differenza dell’episteme- che l’orecchio comune, che il buon senso comune reputi giusto e fondato di senso, vacilli.

Su questo vacillamento, su questo nascondimento di un’altra parte del reale che si mostra essere altrettanto vera io vorrei questa sera intrattenermi con Federico Leoni. Leoni non è qui solo perché mi è caro, ed è vero, è un caro amico, una persona che stimo immensamente, poi vi segnalerò, farò la spia sui libri che ha scritto e meritano di essere letti e affrontati, un po’ con timore e tremore, per dirla con Kierkegaard.

La parola al prof Federico Leoni. Grazie.

Federico Leoni

“Grazie a te per questa presentazione che ovviamente mi mette in grande imbarazzo, vorrei fuggire istantaneamente, dunque fermo i miei fogliettini tentando di trovarci un appiglio…

Intanto grazie non solo e non tanto per la presentazione ma per l’idea di coinvolgermi in quest’iniziativa e di invitarmi in un posto così bello. Non lo conoscevo e sono felice di averlo scoperto questa sera. E quello che io ho fatto, dal fondo della mia inadeguatezza, perché non sono un critico d’arte, sono uno spettatore assolutamente comune, quello che ho fatto di fronte a queste opere, in particolare di fronte all’opera che vedete nell’invito di questa sera, è stato di riflettere su quest’opera: Arlecchino con foglie, su cui già Cristina ha detto molte cose (pur alludendo in quel modo indiretto… vedi tutta la generazione, Benjamin, Bloch…)  quello che ho fatto è di tentare di riflettere su quest’opera: Arlecchino con foglie, e insieme sul titolo di questa mostra: le emozioni ferite.

(…)

Io mi sono chiesto innanzitutto cos’è un’emozione. Il lavoro del filosofo, nella misura in cui si sia all’altezza di farlo- questo non è mai assicurato- ha a che vedere col farsi delle domande sulle cose più ovvie.

Tutti noi evidentemente abbiamo emozioni, ma cosa sia un’emozione è tutt’altro che chiaro. Diciamo che la domanda ‘cos’è un’emozione’ si pone sul piano del sapere, quindi già solo per questo è molto lontana dalle emozioni.

Bene: cos’è un’emozione?

Io penso si possa dare una definizione minimale, con cui provare a muovere dei passi, non voglio dire che sia l’unica o la più vera delle definizioni possibili, ma è una definizione utile ad aprire un cammino.

Io direi che un’emozione è innanzitutto l’evento di una differenza. È -diciamo così- un taglio che si incide nel mondo. Nulla è più uguale, dopo che avviene quello che chiamiamo un evento emotivo, dopo che sperimentiamo un’emozione.

Io credo che questo lo si possa intendere in modo molto più concerto di quanto possa una formula così astratta: ‘l’evento di una differenza’  possa lasciare intendere.

Voi immaginate la fame, il desiderio, l’amore, l’odio… Ecco, dopo che è sbocciato l’amore o esploso l’odio, è accaduta una differenza. Nulla è più come prima, il mondo non è più in quella sfumata compattezza con se stesso in cui stava prima.

Naturalmente le emozioni accadono continuamente, il mondo continuamente si divide, è attraversato da ferite che lo tagliano e lo ritagliano, continuamente accade l’evento di una differenza.

Un grande logico americano, Charles Peirce, diceva che una tartaruga quando ha fame vede il mondo organizzato secondo un operatore, il verde, perché cerca l’erba da mangiare, o le alghe se è acquatica… L’emozione della fame è l’evento di una differenza, tra il verde e il non verde. L’evento dell’amore è l’accadere, l’evento di una differenza tra una donna e tutte le altre, tra un uomo e tutti gli altri, o tra qualcosa in un uomo e tutto il resto in quell’uomo. E cosi via.

Che cosa accade in questo evento di una differenza? Bè, che il mondo si dispone in un primo piano e in una serie di sfondi, in un centro, in un nucleo e in qualcosa di grigio che sta intorno, che cade via. E si potrebbe dire che anche nel soggetto si incide questa differenza, anche nel soggetto quando accade un’emozione si produce una differenza tra il prima e il dopo, tra l’adesso e ciò che è stato fino a pochi secondi prima, ciò che diventa importante per me e ciò che -appunto- cade nell’oblio.

Per questo credo che l’emozione non sia a volte ferita e a volte non ferita. L’emozione è sempre una ferita. Non ci sono che emozioni ferite.

Per questo il titolo: ‘Le emozioni ferite’ è un titolo tautologico, in qualche misura. Lo dico non per sminuirne i meriti, ma per accentuarli. Dire ‘le emozioni’ è già dire ‘le emozioni ferite’.

Il merito di questa formulazione è casomai di essere analitica, di esplicitare quanto è già dato nel soggetto attraverso un aggettivo che ne evidenzia un tratto costitutivo. Un tratto che non è secondario, che non si può togliere.

Non c’è un’emozione che non sia ferita, che non sia orientata. Non c’è un’esperienza che non sia prospettica, non c’è un accadere del mondo che non sia declinato secondo un certo interesse: il verde e il non verde. Una donna, le altre donne. In ogni emozione, in ogni esperienza c’è questa inquietudine che è anche una scommessa, un puntare su questo e non su tutto il resto. Il che significa che in ogni esperienza c’è un’enorme probabilità di fallire, un’enorme probabilità di aver scommesso sul lato negativo sul lato che non promuoverà la vita.

Sempre Pierce diceva: ‘cos’è una verità se non è una verità che non salva la vita? Cos’è la logica se non è una logica che parla del mondo di tutti i giorni, che aiuta a orientarsi nel mondo di tutti i giorni..,?’

Un’emozione ferita è anche un’emozione che si spegne, a volte.

Nel tratto della ferita c’è anche un tratto di mortalità, di finitezza. Le emozioni possono spegnersi, non arrivare più a fare la differenza. Ecco allora che il mondo torna ad appiattirsi, man mano che le emozioni declinano, il mondo torna a non avere più quella nitida articolazione, un primo piano e sfondo, verde e non verde, il mondo non ha più luce -si potrebbe dire: non ha più prospettiva, non ha più sfondo, non ha più ombra, dunque non ha più primo piano, non ha più luce.

In qualche misura è quel che mi sembra accadere in un’immagine come questa, dell’ ’Arlecchino con foglie’. Dove il tratto più notevole mi sembra la luce piatta, la luce che non viene da nessuna parte, sembra venire da tutte le parti, il che significa che nulla è più illuminato, nulla meno illuminato, nulla produce ombra, nulla brilla.

 

Io credo che in questo quadro, la cosa più perturbante è che è assente ogni turbamento. La cosa più inquietante è che è un quadro di una incredibile e appunto inquietante quiete, di una tranquillità quasi mortale, da pochi istanti prima della fine.

 

Come anche un altro quadro di Eugenio Moi, ‘Il grande sonno’, è uno dei quadri più piatti, più immobili, non solo perché iconograficamente è un’immagine che suggerisce l’immobilità, ma per il trattamento pittorico, per la tecnica… Non c’è alcun tentativo di dare spessore a ciò che si illustra. Ecco, questo è un quadro, l’ ‘Arlecchino con foglie’, in cui è scontato che Arlecchino sia diventato un vegetale tra i vegetali. Una foglia tra le foglie. Sia diventato -si potrebbe anche dire- una cosa tra le cose.

Forse c’è -oltre a un desiderio che fa la differenza- un desiderio che è elemento di una indifferenza, oltre a quel genere di emozioni che sono le emozioni che articolano, distinguono, mettono in primo piano e producono una sfondo, forse esiste anche un secondo genere di desideri, di emozioni -Freud se ne era accorto con una lucidità  straordinaria, che gli aveva attratto le critiche di quasi tutti i suoi colleghi- cioè esistono desideri che desiderano non fare la differenza, ma fare l’indifferenza. Esistono desideri che puntano a diventare cose, che puntano a portare il soggetto -dice Freud- a uno stato minerale, a coincidere con l’inorganico.

Chi conosce il testo del 1920, Al di là del principio di piacere, sa che appunto Freud suppone che al di là del principio di piacere ci sia una altro principio, che non mira alla costruzione dell’organico, dunque alla vita che si separa dalla cose e che le usa, ma mira alla coincidenza o al ritorno, come pensa Freud, all’inorganico. Non alla costruzione ma alla decostruzione, non all’usare le cose ma all’appiattirsi sulle cose, a tornare nella grande quiete delle cose.

Ecco, anche questo può essere un modo delle emozioni ferite, anche questo è un modo di abitare la ferita. O tentare di sanare, la ferita.

Le ferite si possono sanare o approfondendole, oppure richiudendole. Ma richiuderle significa richiudere l’evento della differenza in una indifferenza, richiudere la differenza tra il bianco e il nero in un grigio -che è una tonalità dominante tra l’altro, in questi quadri- il grigio è ovunque e in ogni colore c’è una sfumatura di grigio. Io non so se Moi faccia così, ma si può immaginare che faccia così.

Si potrebbe dire che ogni esistenza è anche un diventare cosa, è anche diventare la maschera di se stessa, è anche un diventare segno, un farsi schermo, un farsi vestito… C’è l’uomo, compiutamente umano, c’è il soggetto. C’è l’io quando c’è il gioco di maschera, quando c’è non coincidenza con se stessi, quando si introduce una ferita e quindi una differenza tra me e me, solo lì c’è il soggetto, compiutamente umano.

Quando si apre lo spazio di una differenza tra ciò che penso e ciò che dico, tra ciò che dico e ciò che intendo, tra ciò che mostro e ciò che sento. Tra ciò che esibisco e ciò che nascondo. Tra ciò che metto in primo piano e ciò che lascio cadere nello sfondo.

Non tutto è disponibile. Solo quando non tutto è disponibile di una vita, allora quella è una vita umana.

Questo si può comprendere molto semplicemente se pensate a quel che accade nel mondo animale, dove quasi nessun animale gioca di maschera, o almeno, quasi nessun animale sa di giocare di maschera. Ci sono le farfalle naturalmente che si mimetizzano sulle cortecce degli alberi, ma non lo fanno intenzionalmente. Il camaleonte non sta a dire: adesso divento verde come questo fogliame. Lo fa, semplicemente.

L’uomo -con alcune scimmie probabilmente- è l’unico essere che lo fa intenzionalmente. Da un certo punto in avanti del suo cammino, inizia a giocare consapevolmente di maschera. Si potrebbe pensare agli animali, e altrettanto ai bambini. I bambini iniziano a diventare umani, a uscire dal loro torpore direi animalesco, nel momento in cui imparano a mentire. Su questo tutti gli psicoanalisti cono concordi, e credo anche tutte le madri e tutti i padri. È solo quando ti prendono per il culo, che tu dici: è come me. È solo quando mettono davanti qualcosa con cui non coincidono, per cui possono fare la differenza tra ciò che sentono e ciò che vogliono darti a vedere, è solo in quel momento che quello è un soggetto.

Solo quando si inizia a mentire si diventa umani, e si impara a poter dire la verità. Prima non si è né nella menzogna né nella verità e ognuno di noi dunque è educato da questo lungo cammino che ha a che fare col dire qualcosa nascondendosi dietro un paravento.

Ciascuno di noi ha un paravento di fogliame messo davanti. E questo gioco del tornare indietro per qualcosa che sfugge, che non si vede, perché qualcosa è stato messo lì davanti… Ciascuno di noi è in questo gioco e tutto sommato non è né davanti né di dietro, è in questa continua oscillazione. È il fogliame, il vestito, ed è una certa nudità che non si vedrà mai, si nasconde sempre…

Tutto questo la filosofia lo ha colto -io credo- molto prima della psicoanalisi. Anche per motivi storici: la psicoanalisi è un’invenzione recente, la filosofia da molti secoli sa questa cosa… Se leggete Kant -e perdonatemi l’incursione- è chiarissimo per lui che esiste un Io che si dà a vedere e un Io a partire da cui tutto si dà a vedere, il quale Io -dunque- non si dà affatto a vedere.

È come l’occhio di Wittgestein che tutto vede tranne sé stesso… E a chi gli obiettava: comprati uno specchio, bè, diceva: quello che vedo davanti allo specchio non è l’occhio che vede, è un occhio visto, non è un occhio vivente, è un occhio che assomiglia molto a una biglia di vetro…

Ed è per questo che è inquietante passare davanti agli specchi, ed è per questo che quasi nessuno di noi ama stare troppo davanti agli specchi. Forse è per questo che chi ama stare davanti agli specchi a lungo, sperimenta un bilico vertiginoso, non è perché li si tranquillizza, è perché lì ama sperimentare la paura più profonda, la cosa più perturbante di tutte.

Un altro autore che ha visto con grande chiarezza questa distinzione, o se volete l’utilità di questa distinzione, per cui l’Io è sempre qualcosa lì davanti per qualcosa che sfugge dietro, l’Io è sempre inafferrabilmente nascosto dietro il fogliame proprio perché è lì davanti in una totale evidenza… in questo gioco di totale esibizione e sottrazione… Un altro autore che ha visto perfettamente questo movimento del soggetto è Jan Paul Sartre. Il quale dice in un brevissimo e straordinario saggio che si intitola “La trascendenza dell’ego” che l’Io è sempre due. Lui lo dice in francese perché ha questa possibilità, dice: l’Io è sempre je e moi l’Io è sempre io e me, un io soggetto e un io oggetto.

L’Io non è me. Se io dico ‘io’ ho messo lì davanti qualcosa, come questo bicchiere. Se io mi indico, indico me stesso come questo bicchiere, come una cosa tra le cose. Il che significa che il punto di partenza di questo indice non è mai davanti all’indice, non è mai una cosa indicata, è sempre qualcosa che non si può vedere da nessuna parte, è sempre qualcosa che in quanto produce una scena cade in un retro-scena immemorabile, invisibile.

Potremmo dire che in quest’opera ‘Arlecchino con foglie’ in fondo Eugenio non è Moi, Eugenio non è l’io oggetto, non è il moi di cui parla Sartre.

È impossibile, io credo, non notare questo gioco di parole, in questo pseudonimo, ed è impossibile non notare che in tutti i lavori che qui vediamo, sul tema della maschera, del doppio, dello sdoppiamento, del mettere qualcosa davanti sottraendosi, ne va di un tema di fondo che è legato a questo nome, che è un gioco tra un nome proprio e un pronome: Eugenio ‘moi’. È impossibile non notare che questo gioco sul nome – è un gioco non sullo pseudonimo che questo artista si è dato – ma è un gioco anche sul tema del nome in generale, sul fatto che ciascuno di noi è consegnato a un nome che è una prima maschera. Ciascuno di noi è identificabile pubblicamente attraverso un nome con cui da un lato coincidiamo  e dall’altro non coincidiamo affatto. Ogni nome è un’etichetta assolutamente vuota, eppure assolutamente familiare.

Diceva Bergson: più ripeti una parola più questa anziché guardarti da vicino ti guarda da lontano. Federico, Cristina, Eugenio… Più ciascuno di noi ripete il suo nome più lo trova di una totale estraneità, pur coincidendo totalmente con quella estraneità.

Cristina Muccioli: Si parla di imposizione del nome…

Federico Leoni: Imposizione del nome… Nessuno si nomina. E quando ci nominiamo ci mettiamo nella posizione di un altro, ci nominiamo dalla posizione del padre, o del sacerdote, comunque dell’auctoritas.

Ogni nome proprio ha questo segreto, di essere la cosa più intima, e la cosa più assurdamente lontana.

 

Noi siamo continuamente questa emozione, questa scelta tra qualcosa che è messo in primo piano, per esempio il nome proprio, Eugenio, e qualcosa che si distacca, l’Io, il ‘moi’. Ma la cosa si può anche girare: in fondo ognuno di noi è questo ‘moi’ che si perde e si dà a vedere in un nome proprio… Ciascuno di noi è in questa coincidenza e differenza.

Ciascuno di noi è in questo luogo perché è umano.

L’animale non avrà mai questo problema. Il bambino molto piccolo non ha certamente questo problema. E il bambino piuttosto piccolo ma non così piccolo inizia ad averlo ma in una forma che è molto caratteristica. Inizia a parlare di sé in terza persona, cioè con gli occhi del padre.

Questo significa guardarsi da fuori, e questo è l’inizio della fine, oltre che l’inizio di una vita umana. È  l’inizio della fine dell’Eden, della coincidenza con sé, con la madre, con il padre, con il mondo. E quella è l’emozione, la consegna a un nome che è anche l’evento di quella differenza che dicevamo all’inizio, una differenza che resterà incolmabile: io non sarò più la mia vita, io sarò distante dalla mia vita. Io sarò quel fogliame dietro al quale da qualche parte sono, ma non so più dove.

Io credo che quello che c’è di vertiginoso in questa opera, “Arlecchino con foglie” è sia la tematizzazione esplicita di questa differenza, tra il fogliame davanti e il dietro: si potrebbe dire che il dietro è la cosa più evidentemente mostrata in questo quadro – anche se nascosto dietro le foglie. Non puoi non chiederti insistentemente cosa diavolo c’è dietro le foglie, perché non me lo fa vedere? Allo stesso tempo non è solo questa differenza l’unico tema di “Arlecchino con foglie”. È anche il cancellarsi di questa differenza. È anche l’appiattimento, senza luce… Il venir meno dello stacco. Se guardate questa opera da vicino, non c’è nulla che distacchi le foglie dal volto. Mentre dappertutto in questi quadri ci sono profili molto netti, quasi espressionisti – è tipico dell’espressionismo l’uso di un contorno netto. Qui invece come in pochi altri quadri c’è l’assenza di contorno – non dico uno sfumato leonardesco – ma è un contorno che tende a sparire, che si dà a vedere ma con molta minore nettezza che in tutti gli altri quadri.

Ecco, lì credo ancora una volta che sia all’opera un venir meno di una differenza. Il venir meno di questo gioco che è il gioco del soggetto. Il mostrarsi nascondendosi.

 

Io credo che in questo quadro ci sia una dimensione di trascendenza che precipita in ambivalenza. C’è una differenza, un gioco di primo piano e sfondo che tende ad appiattirsi fino al punto in cui non si sa più qual è lo sfondo, e forse lo sfondo è diventato il primo piano…

Inizi a guardare il mare, a vagare e a notare che ci sono anche altri primi piani, che però forse lo sfondo era un primo piano… È come se lo spegnersi dell’emozione, dell’evento di una differenza, qui destinasse quella differenza a sopravvivere, a sopravvivere nella forma di un attenuarsi senza sosta, senza fine. È come se qui non ci fosse quasi più differenza tra il primo piano e lo sfondo ma anche continuasse a esserci. E ci fosse questa differenza sempre e soltanto -diciamo così- nella forma del cancellarsi, nella forma di un attenuarsi che arriva a un passo dal nulla ma anche a una testarda resistenza. Come se in una sorta di destinato avviarsi al principio di morte -come lo chiama Freud- il principio di vita, il principio di piacere testimoniasse però una sua insormontabilità”.